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Parla, mia paura

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Se a volte la scrittura può essere terapeutica, altre è la lettura a offrire uno spazio in cui indagare qualcosa che ci appartiene, ma che tuttavia non sappiamo come affrontare. Simona Vinci, partendo dalla propria esperienza personale, ci porta nei meandri della paura.

Le pagine di Parla, mia paura si susseguono come un labirinto dove presto capiamo che non può esistere una via d’uscita. Prima che questa prenda forma, dobbiamo essere in grado di osservare quel labirinto con occhi nuovi. Quello che accade al lettore è speculare al percorso della protagonista. Emerge infatti, una visione distorta di sé, dove non è possibile ambire a risolvere il malessere che la attanaglia.

“La sensazione che provavo io era di consumarmi viva. Come un fiammifero che arde nel buio e presto si spegnerà.”

La depressione fa correre l’immaginazione verso scene di suicidio. Gli sguardi lascivi degli uomini sono troppo pesanti da sopportare. L’autrice sente il bisogno scappare da se stessa, a partire dall’aspetto fisico, per questo ricorre a un chirurgo plastico chiedendo di amputarle il seno.

“Se hai paura chiedi aiuto”

Per sette anni, i giardini segreti di Bologna si stagliavano dalla finestra dell’analista. Oltre al percorso terapeutico, Simona Vinci non trae sollievo dalla fede, come fanno alcuni, e nemmeno dalla meditazione, più adatta per altri. Lei affianca, al flusso di pensieri lasciato correre via come il vapore di una pentola scoperchiata, l’immaginazione. I sogni a occhi aperti sono stati la cartina tornasole per iniziare a orientarsi nel labirinto. Poi c’erano anche gli incubi notturni, la personificazione della paura attraverso la simbologia del ragno, affascinante e ripugnante allo stesso tempo.

Tra i vari tentativi di restare a galla nel mare magnum delle ansie, si affida alla scrittura: “Le parole non mi hanno mai tradita”. Le parole come i libri, in particolare, “Il fuoco liberatore” di Pierre Levy: “Rinuncia a tutto: non avrai più paura di niente”. Rinunciando a voler essere o a voler fare, cadono le gabbie mentali e si vive solo il momento presente. L’esercizio, dunque, tutt’altro che semplice nella sua realizzazione pratica, era immaginare il peggio. Visualizzare lo scenario più catastrofico, viverlo mentalmente, attraversarlo e poi rialzarsi, reagire.

Potremmo definirlo un allenamento all’accettazione. La reazione umana di chi comprende che non ha alternativa. La lotta contro qualcosa che non si può cambiare è completamente inutile, il grande passo è accettare. L’accettazione però è una meta in movimento, potremmo mai confidare in una remissione totale della depressione? Simona Vinci ha dato voce al suo dolore, alla paura, ci ha mostrato in che modo ha interagito con le risorse di cui disponeva. Un percorso di tentativi, di cadute, ma anche di possibili passi da cui chiunque può attingere per costruire il proprio personale puzzle della vita.

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