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Cose che non ho buttato via di Marcin Wicha

cose madre

Svuotare la casa di infazia dopo la morte della madre

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Ci circondiamo continuamente di oggetti, cose, cimeli, soprammobili, ricordi che si perdono nelle trame del tempo. Il polacco Marcin Wicha ci porta dentro la casa di famiglia all’indomani della morte della madre, con il suo romanzo Cose che non ho buttato via, edito da Ponte alle Grazie e in corso di traduzione in 15 paesi.

Gli oggetti lo sapevano. Sentivano che a breve sarebbero stati spostati. Sistemati in un luogo non loro. Toccati da mani sconosciute. Si sarebbero impolverati. Rotti. Spaccati. Si sarebbero crepati, sotto un tocco estraneo.

È attraverso le cose che ripercorre il passato, che descrive la figura di sua madre. Soprattutto attraverso i libri, quelli sistemati sulla mensola preferita, quelli senza più copertina, quelli dai titoli improbabili. Libri su libri da smaltire, in qualche modo. Libri in mezzo ai caricabatterie, penne che non scrivono, biglietti da visita dei negozi.

E insieme agli oggetti, Wicha ci lascia percepire alcuni aspetti della cultura polacca, i tratti del carattere dei genitori, per natura accumulatori. Muovendosi tra le stanze che conosce a memoria, il silenzio interiore della mancanza sembra interrompersi insieme ai ricordi che ogni oggetto sprigiona non appena preso tra le mani. Sembra non essere cambiato niente perché ogni cosa è ancora lì, eppure è cambiato tutto.

Quando ce ne andiamo, che fine fanno le cose?

Mentre lo leggo penso ai ricordi di infanzia nelle case dei parenti, la collezione di rane dell’ovetto kinder in cima alla mensola in salotto. Le bottiglie di birra lasciate a prendere polvere. Scaffali pieni di vecchie enciclopedie, l’anta del frigo piena di calamite, i cassetti traboccanti di portachiavi. E poi casa mia, dove accumulavo schede telefoniche, piccoli sassi, pupazzetti trovati per strada.

Mi faccio l’idea che gli oggetti arrivino non per servirci, ma per tessere un racconto silenzioso alle nostre spalle. Come se insieme formassero un grande mosaico che parla del nostro passaggio. In fondo, a livello materiale, cosa siamo una volta morti, se non gli oggetti che lasciamo?

Le case che ci hanno cresciuto hanno accumulato le nostre vite.  Come enormi svuota tasche hanno inglobato ciò che è passato dalle nostre mani, il regalo di qualcuno che ha pensato a noi, qualcosa comprata distrattamente senza un motivo. Così, mentre noi ce ne andiamo, gli oggetti restano, come lo zucchero americano del 1946 in fondo al cassetto.

Tra le pagine de Le cose che non ho buttato via, il dolore è invisibile. Mentre l’autore ricorda, non condivide il senso di perdita e di angoscia del lutto. Il dolore però c’è, è spalmato sugli oggetti come una sostanza trasparente. Lo vedremo di colpo alla fine, così evidente in mezzo a tanto senso pratico dove c’è da organizzare, spostare, smaltire ciò che è più difficile collocare. Anche le parole si esauriscono una dopo l’altra fino al silenzio, per continuare a risuonare dentro. Per ricordare “di tenere la confezione aperta del caffè in frigo. Di tagliare la punta delle banane. Di non lesinare con l’aglio nelle insalate”.

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